comunicazione sociale

Usare le immagini per comunicare la buona causa: 5 semplici consigli

Pubblicato originariamente sul Blog di ConfiniOnline.

Spesso si dice che “un’immagine valga più di mille parole” e nella quotidianità è abbastanza facile sperimentarne la veridicità. Soprattutto in questo periodo storico in cui la parola d’ordine sembra essere rapidità e semplicità. Gli stimoli scorrono come un fiume in piena (pensate solo al news feed di Facebook) e la nostra attenzione si concentra in finestre sempre più brevi.

I nostri processi fisiologici e cognitivi ci vengono in soccorso (o forse semplicemente i comunicatori hanno imparato a sfruttarne al massimo le capacità). Come evidenziano alcuni studi, una lettura orientata alla comprensione del testo adotta un ritmo di 200-400 parole al minuto (circa 3,5-6,5 parole al secondo). Oltre queste soglie sembra la capacità di processare e interpretare il contenuto si riduca notevolmente. Se consideriamo invece le immagini, il cervello sembra in grado di recepirne ed elaborarne alcune caratteristiche elementari (ad es. dimensione, colore, illuminazione ecc.) in circa un decimo di secondo.

Se le immagini quindi sembrano avere la meglio da un punto di vista dell’immediatezza dell’elaborazione, l’efficacia comunicativa dello stimolo richiede che il destinatario condivida con il mittente i codici di codifica e decodifica e quindi abbia le conoscenze e competenze necessarie per identificare ciò che l’immagine vuole realmente trasmettere. Questi limiti sono facilmente riscontrabili ad esempio nelle comunicazioni che usano uno stile irriverente/provocatorio (pensiamo alla famosissime campagne di Oliviero Toscani per Benetton) oppure uno stile ironico (mi viene in mente la famosissima immagine di Charlie Chaplin incastrato negli ingranaggi del film Tempi Moderni).

Come è facile intuire, l’argomento è complesso, sfaccettato e osservabile da molteplici punti di vista. Facciamo quindi un passo indietro e proviamo a individuare 5 semplici consigli pratici da usare quotidianamente in ufficio per scegliere quale immagine preferire per comunicare la propria buona causa. Ovviamente non sono regole incise sulla pietra ma – non mi stancherò mai di ripeterlo – vanno declinate tenendo in considerazione i quattro pilastri che dovrebbero guidare tutte le attività di comunicazione: chi son i destinatari, quali obiettivi vogliamo raggiungere, attraverso quale strategia e utilizzando quali strumenti.

Persone che parlano a persone di persone

Questo è un assunto che non bisogna mai dimenticare. In questo momento a noi interessa soprattutto l’ultimo passaggio “di persone”. Le azioni delle organizzazioni non profit coinvolgono sempre delle persone, siano esse beneficiari oppure volontari/attivisti/operatori. Ecco, le nostre immagini dovranno sempre avere loro come protagonisti.

Di seguito un esempio in cui volessimo raccontare che grazie al contributo dei donatori è stato possibile comperare dei giochi nuovi per i bambini della pediatria dell’ospedale.

Oppure nel caso di un progetto dedicato alla ricerca sull’AIDS:

L’alchimia tra immagine e testo

Molto spesso la potenza comunicativa nasce proprio dall’unione tra immagine e testo/frase. Questo perché non tutti interpretiamo le immagini allo stesso modo e il testo può servire per fornire la chiave di lettura corretta oppure per focalizzare l’attenzione su particolari elementi rappresentati e rappresentativi.

Ho visto tante campagne ma quelle che secondo me riesce meglio a rappresentare questa alchimia è la seguente pubblicità tabellare realizzata da Cesvi nel 2002 (Agenzia Rapp Collins, Art Director Luca Negretti, Copywriter Eleonora Terrile e Fotografo Dalmazio Cividini).

Ho volutamente tolto dall’immagine il testo. Che cosa vi fa venire in mente questa immagine? Una persona che piange? Però se si guarda bene sembra ci siano delle goccioline anche lateralmente, quindi forse non sono lacrime. Potrebbe essere una persona che sta sudando?

Vediamo cosa dice il teso:
Arriviamo in paesi in lacrime. E li aiutiamo a trasformare ogni lacrima in gocce di sudore. Perché solo quando un paese può vivere del suo lavoro, allora e solo allora è il momento di andarsene. 

Ed ecco avvenire l’alchimia. Riciclando l’idea portate della scuola della Gestalt: “il tutto è maggiore della somma delle singole parti”. Quella che segue è la campagna originale.

Semplice non banale

Affinché l’immagine, e soprattutto il messaggio che rappresenta, arrivi con maggiore rapidità ed efficacia è importante che sia semplice e pulita. Il soggetto deve essere posizionato in primo piano. Evitiamo le foto artistiche (che ovviamente vanno benissimo in specifici contasti e particolari strumenti) e allo stesso tempo evitiamo di essere banali o ricorre a stereotipi. Ecco un semplice esempio.

Ricordiamoci anche che la nostra attenzione si fissa prima di tutto sui volti (soprattutto se guardano “diritto in camera”) e sui bambini. Di seguito un esempio di dove si focalizza lo sguardo (più l’area è rossa e più l’occhio si sofferma) durante l’esposizione di 7 secondi a questa immagine:

L’organizzazione deve sempre essere presente

Questo è uno degli aspetti su cui si presta spesso poca attenzione eppure è molto semplice: all’interno dell’immagine deve sempre esserci da qualche parte il logo della nostra organizzazione. Questo per almeno tre motivi: rafforza la riconoscibilità del nostro brand, personalizza e rende unica l’immagine e nel caso venisse condivisa (in maniera positivo ma anche fraudolenta) rimarrebbe sempre traccia della nostra ONP.

E come fare allora? Molto semplice, basta un po’ di fantasia. Un’idea potrebbe essere di far indossare una maglietta, un cappellino, una spilla dell’organizzazione a uno dei soggetti ripresi oppure fare in modo che rientri nell’inquadratura un elemento (struttura, auto, muro, porta ecc.) che riporti il nostro logo. Ecco un semplice esempio.

Ad ognuno il suo lavoro

Oggi grazie agli smartphone e alle app di editing si è diffusa la (falsa) convinzione che tutti possiamo fare delle buone foto da utilizzare nella comunicazione. Non c’è nulla di più sbagliato. Come per tutte le professioni ci vogliono conoscenze, competenze ed esperienza. Non basta aver acquistato una buona reflex oppure un cellulare con la fotocamera a 16 megapixel e poi applicare un paio di filtri pre-impostati.

Se le foto vengono fatte da un professionista si nota subito sia dal punto di vista della qualità tecnica dello scatto sia dalla capacità di “far parlare” l’immagine. Per questo motivo il mio consiglio è sempre di verificare se tra i propri volontari ve ne sia qualcuno appassionato di fotografia oppure in caso negativo di investire qualche centinaia di euro in un fotografo professionista.

Bastano una decina di foto “fatte bene” per poter produrre materiali di comunicazione di qualità per almeno un paio d’anni. Ecco un esempio. Si nota la differenza?

Questi sono solo alcuni semplici consigli. Voi quali aggiungereste?

Davide Moro è un consulente di fundraising e formatore specializzato in raccolta fondi online, comunicazione sociale e psicologia del donatore. Dopo aver concluso nel 2016 il dottorato di ricerca all’Università IULM con un progetto di ricerca sulla philnathropic psychology, si è appassionato al tema della divulgazione del fundraising dal punto di vista della ricerca accademica.