riflessioni

Non chiamatelo “no profit”!

Se c’è una cosa che non sopporto è l’utilizzo (soprattutto da parte di professionisti del settore) di “no profit” al posto di “non profit”. Non è solo un fastidio ma un vero e proprio stato di indisposizione generalizzata. Nel mio cervello si attiva un meccanismo di semplificazione che associa automaticamente l’utilizzo della parola a una scarsa conoscenza ed esperienza del settore. Se questa scorciatoia stereotipica molto spesso si rivela essere un errore dettato da un mio pregiudizio, nel caso di comunicazioni commerciali rivolte al non profit spesso ci azzecca. Perché come si dice, “a pensar male degli altri si fa peccato, ma spesso ci si indovina”.

Come potete facilmente intuire, l’utilizzo corretto del termine “non profit” è una mia piccola crociata personale. E ora provo a spiegarvi perché.

Iniziamo dalla Crusca

Per ogni dubbio riguardo l’italiano c’è un unico faro nella nebbia: l’Accademia della Crusca. E proprio sul tema no profit vs. non profit trovate un approfondimento specifico che “dovrebbe” chiarire ogni dubbio. Ecco cosa ci dice:

La locuzione non profit (o non-profit) è di origine angloamericana ed è stata coniata per indicare la caratteristica di organizzazioni, enti che operano ‘senza scopo di lucro, senza profitto’. […] Ambedue ormai diffuse e accolte come corrette (non profit, anche nella variante non-profit è attestata dal 1992 e registrata nei principali dizionari dell’uso che segnalano, nella maggior parte dei casi, anche no profit come variante)…

Quindi secondo l’Accademia, i due termini sono, dal punto di vista linguistico, intercambiabili. Ma c’è un però:

i due prefissi, almeno inizialmente, si sono distribuiti secondo sfumature di significato leggermente diverse da attribuire al composto.

Ed è proprio questa sfumatura di significato che per i professionisti del settore si trasforma in un tratto profondamente differente. Concretamente:

No profit: come ci dice anche la Crusca, il prefisso “no” assume il significato non solo di assenza ma anche di negazione, rifiuto del profitto. Per esemplificare, è la stessa accezione del termine no-global il cui fine è stigmatizzare la globalizzazione. Quindi nel nostro caso vorrebbe dire che l’ente non solo non dovrebbe generare profitto ma anche non è buono che ci sia.

Non profit: deriva dall’inglese not-for-profit che non ha il significato di non generare profitto bensì di non redistribuzione degli utili eventualmente prodotti ma l’obbligo di reinvestirli nella causa senza generare profitto/guadagno per chi apporta le risorse economiche o lavorative. Il profitto quindi si può e si dovrebbe fare (anche se un profitto troppo elevato potrebbe essere segnale di un cattivo impiego delle risorse a disposizione perché non è eticamente accettabile accantonare risorse quando ci sono ancora beneficiari non raggiunti dalle nostre attività).

E quindi quale è la soluzione?

Dal punto di vista dell’italiano non ci sono problemi, usate il termine che più vi piace. Il problema si crea a livello culturale in cui i due termini non hanno lo stesso significato.

Anche la Crusca, dal mio punto di vista, commette una leggerezza nella definizione in quanto indirettamente unisce la contrapposizione sostanziale dei due termini. Parla di “senza scopo di lucro, senza profitto” che però non sono sinonimi. Il profitto è ciò che rimane dopo aver sottratto alle entrate i costi e che in qualsiasi attività difficilmente sarà pari a zero. Il lucro invece si lega al ritorno personale in termini economici (vedi la Treccani che lo definisce “guadagno materiale, vantaggio economico”), che nel non profit viene automaticamente escluso dalla non redistribuzione di utili.

A questo punto, se oltre a essere fundraiser, siamo anche agenti di cambiamento culturale e sociale allora dobbiamo sforzarci di utilizzare il termine corretto “non profit”. Utilizzando il termine “no profit”, involontariamente e inconsapevolmente, contribuiamo a supportare e confermare la diffusa ed errata convinzione che non profit voglia dire gratis, lavoro volontario e assenza di profitto.

Davide Moro è un consulente di fundraising e formatore specializzato in raccolta fondi online, comunicazione sociale e psicologia del donatore. Dopo aver concluso nel 2016 il dottorato di ricerca all’Università IULM con un progetto di ricerca sulla philnathropic psychology, si è appassionato al tema della divulgazione del fundraising dal punto di vista della ricerca accademica.