riflessioni

E se passassimo da not-for-profit a for-impact?

CONTENUTI CHIAVE
  1. Dobbiamo sostituire il termine non-for-profit e con for-impact organizations
  2. Le organizzazione esistono per “generare impatto“, non per “non fare profitto”
  3. L’attenzione ai soli costi/profitti non fa altro che alimentare il meccanismo dell’avversione ai costi di struttura

Portare al centro il PERCHÉ

Qualche giorno fa, l’esperto di leadership e comuncazione Simon Sinek (se non lo conoscete, dovete assolutamente vedere il TED talk sul Golden Circle) ha condiviso nel suo profilo Facebook questo video.

Please stop calling yourself not-for-profit. That is a tax delineation and no one wants to be defined by what you’re not. […] Stop calling yourselves not-for-profit and start calling yourselves for-impact organizations.​Simon Sinek

Il messaggio centrale è semplice e per questo anche estremamente potente: dobbiamo smettere di definirci not-for-profit e passare al concetto di for-impact.

Ragionare di not-for-profit equivale a focalizzarsi sul COME le nostre organizzazioni perseguono la propria mission e vision, cioè senza nessuno scopo di lucro. Però, come ci insegna lo stesso Sinek attraverso il Golden Circle, la vera chiave dell’efficacia e del sucesso non risiende nel “come” (how), tantomeno nel “cosa” (what) un’organizzazione mette in atto, bensì nel “perché” (why) esiste.

Definirsi for-impact porta al centro il PERCHÉ le organizzzioni si attivano e hanno ragione d’esistere: vogliono generare un impatto e un cambiamento sociale.

Non è solo una questione di terminologia

Qualcuno si starà domandando se abbia senso perdere (o investire, a seconda dei punti di vista) del tempo e delle energie su queste sfumature di significato che rischiano di appassionare e interessare solo gli addetti ai lavori. Nella realtà ha un impatto maggiore rispetto a quello che si può immaginare a prima vista. Già in passato avevo avuto modo di fare una riflessione analoga su altri due termini che spesso vengono usati come sinonimi senza particolari remore o pensieri: no profit al posto di non profit.

Per molte persone che lavorano nelle orgaizzazioni potersi identificare tramite delle etichette istituzionalizzate e riconosciute è estremamente rassicurante perché semplifica la complessità del mondo e trasmette valori e identità già condivise dalla maggior parte dei destinatari, evitando quindi di doverle dimostrare, raccontare e negoziare continuamente, giorno dopo giorno.

Un esempio in cui sicuramente ognuno di voi si sarà imbattuto almeno una volta nella vita: gli enti che (ab)usano dell’etichetta “onlus”, considerndola garanzia insindacabile che «se siamo onlus non c’è ombra di dubbio che noi siamo quelli buoni e bravi, tutti lo sanno ed è del tutto superfluo che debba dimostrarlo ulteriormente». Ovviamente essere onlus prima di tutto non è certezza di buona gestione, ma soprattutto nulla racconta sul reale impatto delle nostre azioni. Inoltre, forzarne l’uso in questa direzione contribuisce a consolidare e diffondere, in modo più o meno velato, l’idea che c’è un altro universo di enti “non onlus” che proprio per questa loro condizione debbano essere considerati meno affidabili e quindi degni di minor fiducia.

Nella pratica quotidiana l‘utilizzo aprioristico e non ragionato di alcune etichette produce il solo effetto di appiattirne il significato verso il basso, limitando la possibilità di esaltare e valorizzare specificità e potenzialità delle singole realtà. Questo perché, oltre a una funzione meramente tassonomica e linguistica, l’utilizzo e la scelta di determinate etichette contribuisce a costruire e rafforzare il sistema di significati attraverso cui le persone leggono, interpretano e agiscono il mondo.

Non è solo un meccanismo che riguarda le persone che vivono il settore dall’esterno verso l’interno (come ad esempio i donatori), ma anche chi, dall’interno verso l’esterno (i dipendenti, i volontari, gli attivisti ecc.) costruisce e trasmette l’identità e i valori delle organizzazioni e del settore stesso.

Dal reale impatto all’avversione ai costi di struttura

Una delle conseguenze dall’aver adottato le etichette non-profit o senza scopo di lucro come la miglior rappresentazione dell’essenza delle nostre organizzazioni, ha contribuito a spostare nei decenni l’attenzione e la comunicazione quasi esclusivamente sulla competizione perversa rispetto i costi di struttura. Competiione che ha generato nei donatori (ho potenziali tali) quella che in letterauta scientifica viene identificata come avversione ai costi di struttura (overhead aversion).

Tutta questa attenzione ai costi e all’efficienza, ci ha portati a ignorare l’importanza cruciale di comunicare e valorizzare il senso profondo che muove un’organizzazione: non certo tenere i costi di struttura bassi e spendere poco (il come), ma essere in grado di generare un impatto e un cambiamento importante, strutturale e duraturo per i beneficiari (il perché).

Fortunatamente oggi si osservano molti segnali di un cambio di passo importante verso questa direzione, anche se la strada non è per nulla semplice, scontata e rapida.

Da un lato un tale cambiamento non è stato ancora metabolizzato dagli operatori del settore, che continuano a preferire la rappresentazione dell’euro ripartito in spicchi per descrivere il loro impegno, invece di raccontare le storie dei beneficiari che, grazie ai donaotri e i progetti dell’ente, hanno potuto riscrivere il proprio futuro. Dall’altro la narrazione quotidiana dell’essere non-profit, ha consolidato l’idea nelle persone comuni (donatori e non) che gli enti non possano generare un utile e, se lo fanno, c’è qualcosa di disonesto. Inoltre ha contribuito a consolidare l’idea che avere dei costi di struttura superiori a una certa soglia (che nessuno in realtà ha mai definito con precisione, ma che tutti sembrano conoscere benissimo e applicano senza troppe remore per valutare gli enti), rappresenti una forma di profitto occulto che i furbetti delle onlus si intascano lucrando sui donatori.

Oggi siamo davanti a un bivio, il settore e il contesto ci impongono dei cambiamenti anche radicali. Uno dei tanti possibili passi avanti potrebbe riguardare, proprio come suggerisce Sinek, una nuova (auto)rappresentazione di noi stessi che parta dall’adozione consapevole di una nuova “etichetta”. Una definizione che non dica quello che non siamo (not-for-profit) e neanche che ci riconosca un ruolo residuale rispetto al resto del mondo (Terzo Settore), bensì che valorizzi la missione che ci muove e motiva quotidianamente: generare un impatto sociale (for-impact) in grado di cambiare il mondo e renderlo un posto migliore per noi e per le generazioni future.

Voi come lo tradurreste efficacemente in italiano for-impact organization? Raccogliere un po’ di idee nei commenti e contribuiamo a dare impulso al cambiamento!

Foto di copertina realizzata da Jordan e resa disponibile tramite Unsplash

Davide Moro è un consulente di fundraising e formatore specializzato in raccolta fondi online, comunicazione sociale e psicologia del donatore. Dopo aver concluso nel 2016 il dottorato di ricerca all’Università IULM con un progetto di ricerca sulla philnathropic psychology, si è appassionato al tema della divulgazione del fundraising dal punto di vista della ricerca accademica.